© Daniel Hug

CAMOSCI E SCIALPINISTI

Un inverno sulle tracce di camosci e scialpinisti:
il progetto Hoher Ifen-Hählekopf

Tra il 1994 e 1995, grazie ad una borsa di studio presso l’Istituto di Biologia e Gestione della Fauna Selvatica del Professor Wolfgang Schröder  all’Università di Monaco di Baviera, ebbi modo di trascorrere l’inverno sulle montagne dell’Allgäu in Baviera e su quelle del Vorarlberg in Austria. In quell’area delle Alpi, la problematica dello scialpinismo come fattore di disturbo della fauna già allora era argomento di grande attualità, mentre cominciava a profilarsi quello dell’escursionismo con racchette da neve. Il Professor Schröder, conoscendo la mia passione per la montagna decise che non era il caso di tenermi rinchiuso in istituto, e mi spedì da Albin Zeitler, un biologo attivo in quell’area: Albin era stato uno dei primi ad accorgersi che lo sviluppo delle attività turistiche sulle Alpi stava diventando un problema per il benessere della fauna. Nel 1994 in Schwarzwassertal, una valle del Vorarlberg che si raggiunge da Oberstdorf, l’area compresa tra l’Hoher Ifen Plateau e l’Hählekopf venne chiusa allo scialpinismo e all’alpinismo, in seguito ai continui disturbi causati a camosci e fagiani di monte presenti nell’area (Fig. 1 e Fig. 2).

Fig. 1 – L’area di studio era ubicata in Schwarzwassertal, una valle laterale della Kleinen Walsertal in Vorarlberg (Austria) e comprendeva, tra l’altro, il versante meridionale dell’Hoher Ifen Plateau (2229 m), nella foto. A causa dell’aumento del disturbo antropico a camosci, cervi e fagiani di monte, causato dal sempre maggior numero di praticanti delle attività outdoor (scialpinismo, escursionismo con racchette da neve ed alpinismo), l’intera area era stata chiusa al turismo. Colpite da questo provvedimento erano state sia le pareti dell’Hoher Ifen, famose per l’arrampicata sportiva, sia alcuni itinerari scialpinistici (foto Luca Rotelli).

 

Fig. 2 – Al centro, la cima dell’Hählekopf (2058 m), meta di alcuni itinerari scialpinistici. Anche quest’area era stata chiusa alle attività turistiche, al fine di garantire la necessaria tranquillità ai branchi di camosci e ai fagiani di monte. In totale l’area di studio aveva una superficie di circa 780 ha (foto Luca Rotelli).

Tale decisione era stata presa dal locale ufficio forestale, di comune accordo con le riserve di caccia presenti in zona. All’epoca sulle vicine montagne dell’Allgäu, in Germania, il tema del disturbo causato alla fauna dallo scialpinismo, che in pochi anni aveva avuto una crescita esponenziale di praticanti, era già stato affrontato. Il Club Alpino Tedesco aveva già iniziato a marcare alcuni itinerari scialpinistici, con l’idea che, canalizzando il flusso degli sciatori, il loro impatto avrebbe potuto essere parzialmente limitato (Fig. 3).

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Fig. 3 – La cima del Riedberger Horn (1787 m), nelle Alpi occidentali dell’Allgäu è stata una delle prime montagne tedesche dove gli itinerari scialpinisti sono stati marcati: correva l’inverno 1993-94. A nord delle Alpi era già chiaro che lo scialpinismo non avrebbe potuto essere praticato ancora a lungo in forma totalmente libera. Il cartello verde con l’immagine stilizzata dello scialpinista in salita, indica la via da seguire (foto Luca Rotelli).

Grazie a questa esperienza maturata a pochi chilometri di distanza dalla Schwarzwassertal, si ritenne di proporre anche in questa zona un’attività simile. Si decise pertanto di provare a riaprire l’area dell’Hoher Ifen Plateau e dell’Hählekopf alla frequentazione degli scialpinisti a partire dall’inverno 1994-1995. All’epoca la frequentazione invernale della montagna era a quasi esclusivo appannaggio degli scialpinisti, mentre l’escursionismo con racchette da neve era ancora praticato da pochissime persone. Nell’autunno del 1994 tutti i gruppi di interesse coinvolti nella problematica si riunirono per decidere il da farsi. Facevano parte di questo tavolo di lavoro, forestali, biologi, guide alpine, responsabili delle attività turistiche, allevatori e proprietari dei terreni. Venne anche invitato il presidente della sezione del Club Alpino Tedesco dell’Allgäu per sentire direttamente dalla sua voce l’esperienza promossa sulle vicine montagne tedesche. Dopo aver valutato le esigenze di tutti i gruppi di interesse presenti, si decise che seguire l’esempio tedesco poteva essere un modo per riaprire alla frequentazione turistica un’area tanto importante per l’economia della valle (in zona era anche presente un rifugio, la Schwarzwasserhütte, che tradizionalmente era aperto anche durante la stagione invernale), garantendo al contempo il rispetto delle esigenze delle popolazioni di camoscio e di fagiano di monte. Prima dell’inizio della stagione invernale, ci recammo quindi sul posto per individuare e marcare gli itinerari che sarebbero poi stati percorsi dagli scialpinisti: biologi e forestali proposero le aree da tutelare, mentre le guide alpine decisero i percorsi che gli scialpinisti avrebbero dovuto seguire per raggiungere le mete delle loro escursioni. Vennero posizionati alcuni cartelli che riportavano la figura stilizzata di uno scialpinista e un motto, mentre in alcuni punti strategici vennero anche date informazioni più dettagliate sulla finalità dell’iniziativa (Fig. 4 e Fig. 5).

Fig. 4 – Cartello posizionato lungo un itinerario consigliato. La scelta del percorso da seguire è stato deciso dalle guide alpine locali, sulla scorta delle indicazioni delle aree da proteggere (foto Luca Rotelli).

Fig. 5 – Pannello con le indicazioni del comportamento da mantenere e con alcune informazioni sullo scopo dell’iniziativa, posizionato lungo l’itinerario da seguire. L’attività è stata promossa e finanziata dal Club Alpino Austriaco (foto Luca Rotelli). 

Quell’inverno la neve arrivò tardi, soltanto alla fine di dicembre: da quel momento ebbe ufficialmente il via la sperimentazione proposta. A me fu affidato il compito di osservare il comportamento degli scialpinisti, dei camosci e dei fagiani di monte, per verificare se le indicazioni date venissero rispettate e per prendere nota di quali fossero le reazioni di camosci e fagiani di monte alla presenza umana. Nella zona aperta all’attività scialpinistica era presente un branco di circa 40 camosci, la cui area di svernamento si trovava non lontana dalla cima dell’Hählekopf, meta di un tradizionale itinerario scialpinistico (Fig. 6).

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Fig. 6 – La zona tenuta sotto controllo durante l’inverno 1994-95 sul versante sud dell’Hählekopf. In primo piano, all’interno della linea nera, vi è la zona che si voleva venisse lasciata tranquilla, in quanto importante area per lo svernamento di camosci e fagiani di monte. Il luogo di principale frequentazione dei camosci è cerchiato in arancione. Sullo sfondo l’itinerario consigliato per raggiungere la cima dell’Hählekopf. Di fatto si trattava dell’itinerario classico di salita, oltre che di discesa. Soltanto in tempi recenti erano nati itinerari alternativi, come risultato di un numero sempre maggiore di praticanti dello scialpinismo (foto Luca Rotelli).

Nel periodo compreso tra l’inizio di gennaio e la fine di aprile del 1995 trascorsi 53 giornate su di un punto di osservazione da cui era possibile osservare l’intera area di studio (Fig. 7 e Fig. 8), protocollando ogni 15 minuti, dalle prime luci dell’alba al tramonto, l’attività dei camosci e dei fagiani di monte e il numero degli scialpinisti presenti. Poiché una parte dell’area era stata comunque preclusa all’attività dello scialpinismo, ebbi anche l’opportunità di confrontare l’attività dei camosci in zone caratterizzate da una diversa frequentazione umana. Quando si verificava una interazione tra scialpinisti e il branco di camosci, venivano descritti i seguenti parametri:

  • la reazione da parte dei camosci all’avvicinamento del disturbo, ovvero la distanza alla quale essi iniziavano ad allontanarsi;
  • la distanza percorsa dai camosci durante l’allontanamento, ovvero la lunghezza tra il punto in cui gli animali cominciavano ad allontanarsi e il punto in cui terminavano il loro spostamento;
  • il dislivello percorso in salita e in discesa;
  • la tipologia ambientale delle zone dove i camosci cominciavano e terminavano la fuga o lo spostamento e la durata della loro permanenza nell’area scelta come rifugio.


Inoltre, quando gli animali si sono allontanati, è stata fatta la distinzione tra spostamento e fuga. Lo
spostamento è stato definito come la reazione “non violenta” da parte di un animale all’apparire di un disturbo: avviene camminando e ha come conseguenza l’abbandono, in modo tranquillo, del luogo dove l’individuo si trovava prima che il disturbo si manifestasse. La fuga invece è stata definita come la reazione “violenta” da parte di un animale all’apparire di un disturbo: avviene correndo e ha come conseguenza l’abbandono, attraverso la corsa, del luogo dove l’individuo si trovava prima che il disturbo si manifestasse.

 

Questa distinzione è necessaria in quanto spostamento e fuga, per gli animali coinvolti, hanno implicazioni energetiche assai diverse. Per quanto specificato nelle sezioni dedicate a Come vive la fauna d’inverno e alla definizione di Che cos’è un disturbo, è evidente come una fuga precipitosa, che avviene correndo nella neve, comporti per gli animali un dispendio energetico assai più elevato rispetto ad un allontanamento che avviene invece semplicemente camminando. Inoltre possiamo pensare che la fuga, ovvero un comportamento che consiste in una reazione immediata particolarmente violenta, abbia delle ripercussioni più accentuate sugli animali coinvolti: per esempio in termini di lunghezza del tragitto percorso e del tempo necessario a ritornare alla situazione precedente al manifestarsi del disturbo stesso, cosa che si può riassumere in una situazione più prolungata di stress per gli individui.

 

Durante 53 giornate d’osservazione sono stati visti salire sulla cima dell’Hählekopf 821 scialpinisti, con un massimo di 100 persone nel corso della stessa giornata. Durante lo stesso periodo sono stati osservati 419 camosci: non si tratta di 419 esemplari diversi, ma dei membri del branco di circa 40 animali che era solito frequentare la zona non lontana dall’itinerario individuato. Di questi, 91, pari al 21,72% di tutti quelli osservati, non sono stati disturbati, almeno apparentemente, dalla presenza degli scialpinisti, mentre 328, pari al 78,28%, hanno dato vita ad una reazione: 193, pari al 58,84%, sono fuggiti correndo, 135, pari al 41,16%, si sono invece spostati camminando. I maschi da soli e in piccoli branchi di 2-5 individui hanno dato vita esclusivamente a spostamenti (N = 14), mentre le femmine con i piccoli hanno dato vita sia a spostamenti (N = 13), sia a fughe (N = 13).

 

In totale sono state osservate 50 interazioni tra scialpinisti e camosci, così suddivise:

  • 17 fughe;
  • 27 spostamenti;
  • in 6 casi invece non si è verificata nessuna reazione.

Fig. 7 – Il punto scelto per l’osservazione dell’attività dei camosci e degli scialpinisti sull’Hählekopf, dove nel periodo compreso tra il gennaio e l’aprile 1995 ho trascorso 53 giornate, dalle prime luci dell’alba al crepuscolo, protocollando ogni 15 minuti l’attività dei camosci e dei fagiani di monte e il numero degli scialpinisti (foto Luca Rotelli).

Fig. 8 – Veduta dell’area sotto controllo visivo. In primo piano le zone rocciose dove i camosci erano soliti trascorre le loro giornate alla ricerca del nutrimento e riposando; illuminate dalle prime luci dell’alba le tracce in salita e in discesa dell’itinerario classico alla cima dell’Hählekopf, che era anche quello consigliato. Quando gli scialpinisti si sono attenuti alle indicazioni date, il loro disturbo alla fauna è stato più contenuto (foto Luca Rotelli).

Il valore mediano della lunghezza di un tragitto percorso durante la fuga è stato di 575 metri (Min. = 325 m; Max = 1200 m), mentre quello durante lo spostamento è stato di 175 metri (Min. = 75 m; Max = 675 m). Allo stesso modo il valore mediano della distanza a cui i camosci hanno iniziato la fuga all’arrivo degli scialpinisti è stato di 250 metri, mentre è stato di 150 metri quando hanno fatto uno spostamento (Fig. 9).

 

La lunghezza di una fuga, la cui esecuzione avviene correndo (Fig. 10), è stata quindi decisamente superiore a quella di uno spostamento, che invece avviene camminando (Fig. 11).

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Fig. 9 – Valori mediani, minimi e massimi delle lunghezze di fughe e spostamenti e delle relative distanze di reazione osservate in camosci, in seguito all’interazione con scialpinisti, sull’Hählekopf (Vorarlberg) nel periodo gennaio-aprile 1995, in seguito all’interazione con scialpinisti. Le fughe si connotano come reazioni particolarmente violente, sia perché l’allontanamento avviene correndo, sia perché la reazione si manifesta quando gli scialpinisti sono ancora molto lontano. La differenza dei due parametri in entrambi i gruppi è altamente significativa (Mann-Whitney U-Test: Z=- 4,33198; P<0,001 risp. Z=- 3,26971; P<0,0001) (foto Luca Rotelli).

Fig. 10 – Un branco di camosci, femmine con piccoli, in fuga all’avvicinarsi di alcuni scialpinisti in salita, al di fuori dell’itinerario marcato e consigliato sull’Hählekopf. Poiché la fuga avviene correndo, i costi energetici ad essa associati sono elevati. Inoltre i camosci spaventati percorrono distanze notevoli dal luogo in cui si trovavano inizialmente, con perdite di dislivello di alcune centinaia di metri. Questo poi deve essere rifatto in salita, ciò che implica un investimento energetico ulteriore (foto Luca Rotelli).

Fig. 11 – Un branco di camosci in spostamento all’avvicinarsi di alcuni scialpinisti in salita, lungo l’itinerario marcato e consigliato per la cima dell’Hählekopf. Lo spostamento è un allontanamento da una forma di disturbo, che avviene camminando. La reazione degli animali è più tranquilla rispetto alla fuga: la lunghezza dei tragitti percorsi è contenuta, la distanza alla quale gli animali cominciano ad allontanarsi è inferiore e difficilmente gli animali perdono dislivello. Sono tutte caratteristiche che fanno pensare che per gli animali il disturbo che si avvicina non sia così pericoloso (foto Luca Rotelli).

Allo stesso modo la distanza di reazione all’avvicinamento degli scialpinisti è stata molto superiore nel caso delle fughe che non per gli spostamenti. Nelle prime inoltre, i camosci spaventati hanno percorso dislivelli in discesa fino a 300 metri rispetto al luogo iniziale dove si trovavano, per terminare la loro corsa all’interno del bosco. Dopo aver trascorso la maggior parte della giornata al riparo, verso sera i camosci compivano il tragitto inverso per ritornare da dove erano stati scacciati. Compiere parecchi metri di dislivello in discesa durante la fuga significa che poi tali metri devono essere percorsi in salita per raggiungere nuovamente i luoghi di permanenza iniziali: ciò implica un dispendio energetico rilevante. I luoghi scelti dalla fauna per le proprie attività avvengono sempre considerando molti fattori (disponibilità alimentare, sicurezza contro i predatori, protezione contro gli agenti atmosferici) e mai per caso. Da qui la loro ricerca da parte della fauna, una volta scacciata, anche a costo di investimenti energetici importanti (Fig. 12).

 

La fuga quindi si connota come una reazione molto violenta all’apparire di un disturbo, la cui criticità per gli animali è evidenziata sia dalla lunghezza del tragitto percorso per allontanarsi dallo stimolo (l’arrivo degli scialpinisti), sia dal fatto che questo allontanamento viene percorso correndo (un’attività molto dispendiosa dal punto di vista energetico), sia per la notevole perdita di dislivello, che poi di solito viene ripercorso in salita. Anche la distanza a cui gli animali hanno cominciato ad allontanarsi è stata decisamente maggiore nel caso delle fughe rispetto a quella osservata nel caso degli spostamenti. Ben 11 delle 16 fughe si sono verificate quando gli scialpinisti si sono avvicinati ai camosci al di fuori dell’itinerario consigliato e marcato: questo significa che gli animali coinvolti hanno considerato questo avvicinamento come pericoloso.

 

 

Nel caso di interazioni, quando gli scialpinisti si sono avvicinati ai camosci rimanendo sull’itinerario marcato e consigliato, il valore mediano del tragitto compiuto dai camosci mentre si allontanavano è stata di 275 metri (Min. = 75 m; Max = 675 m), mentre quando gli scialpinisti si sono avvicinati ai camosci al di fuori dell’itinerario marcato, gli animali hanno avuto reazioni più violente, con il valore mediano dei tragitti compiuti che è stato di 600 metri (Min. = 75 m; Max = 1200 m). Allo stesso modo il valore mediano della distanza a cui i camosci hanno iniziato ad allontanarsi all’arrivo degli scialpinisti lungo l’itinerario marcato è stato di 150 metri, mentre quando gli scialpinisti si sono avvicinati lungo percorsi alternativi, il valore mediano della reazione è scattata a 250 metri (Fig. 13).

Fig. 12 – Un branco di camosci fa ritorno nel tardo pomeriggio al luogo dove si trovavano in mattinata prima dell’arrivo degli scialpinisti, le cui tracce in salita sono ben visibili, dopo aver trascorso la giornata nel bosco. I luoghi scelti dalla fauna per le proprie attività avvengono sempre considerando molti fattori (disponibilità alimentare, sicurezza contro i predatori, protezione contro gli agenti atmosferici) e mai per caso. Da qui la loro ricerca sistematica, anche a costo di investimenti energetici importanti (foto Luca Rotelli).

Fig. 13 – Valori mediani, minimi e massimi dei tragitti percorsi dai camosci allorché gli scialpinisti si sono avvicinati rimanendo sul percorso marcato e consigliato rispetto a quando gli scialpinisti hanno usato itinerari alternativi e relative distanze di reazione osservate nel periodo gennaio-aprile 1995 sull’Hählekopf, in seguito all’interazione con scialpinisti. Nei maschi la reazione all’avvicinarsi di un disturbo ha di solito un’intensità moderata, rispetto a quanto accade per i branchi di femmine con i piccoli. La presenza di questi ultimi rende le femmine particolarmente sensibili ai disturbi. La differenza dei due parametri tra i due gruppi è significativa soltanto per la lunghezza dei tragitti, ma non per le relative distanze di reazione (Mann-Whitney U-Test: Z= 2,88889; P<0,005 risp. Z= 1,85601; P>0,05) (foto Luca Rotelli).

Quando i camosci sono stati spaventati dagli scialpinisti che si avvicinavano lungo itinerari alternativi, hanno percorso dislivelli in discesa fino a 300 metri rispetto al luogo iniziale dove si trovavano (Fig. 14), mentre quando l’avvicinamento è avvenuto lungo l’itinerario marcato e consigliato, la perdita di dislivello è stata per lo più assente o irrilevante.

 

Quando gli scialpinisti si sono avvicinati ai camosci rimanendo sul tragitto marcato, le reazioni da parte degli animali coinvolti sono state più moderate, rispetto a quelle messe in atto quando gli scialpinisti si sono avvicinati lungo itinerari alternativi. Allo stesso modo la distanza alla quale i camosci hanno cominciato ad allontanarsi è stata decisamente inferiore quando gli scialpinisti sono rimasti sull’itinerario marcato, rispetto a quando sono apparsi risalendo lungo itinerari diversi: questo perché l’avvicinamento lungo l’itinerario marcato consentiva ai camosci di valutare meglio cosa stava accadendo intorno a loro, permettendo così di considerare l’arrivo degli scialpinisti non pericoloso.

 

 

Se il nostro comportamento induce i camosci ad allontanarsi quando si trovano a distanze elevate da noi, questo implica che lo spazio necessario ai camosci per lo svolgimento delle loro attività deve essere maggiore: se questo spazio non è disponibile, la conseguenza è che i camosci abbandonano le aree interessate dal disturbo. Quando gli scialpinisti si sono avvicinati rimanendo sul tragitto marcato si sono verificati prevalentemente spostamenti (23 contro 5 fughe), mentre quando sono saliti al di fuori di esso, si sono verificate prevalentemente fughe (11 contro 3 spostamenti).

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Fig. 14 – Le fughe sono finite in molti casi all’interno del bosco, a circa 1, 2 km dal luogo in cui i camosci si trovavano prima dell’interazione con gli scialpinisti, con una perdita di dislivello fino a 300 metri. Dopo aver trascorso la maggior parte della giornata al sicuro nel bosco, verso sera i camosci compivano il tragitto inverso per ritornare da dove erano stati allontanati (foto Luca Rotelli).

I maschi di camoscio hanno reagito in modo meno violento dei branchi di femmine con i piccoli: il valore mediano dei tragitti percorsi dai maschi è stato di 175 metri (Min. = 75 m; Max = 675 m), mentre per le femmine questo valore è stato di 400 metri (Min. = 75 m; Max = 1200 m) rispetto al luogo in cui si trovavano prima dell’arrivo degli scialpinisti. Il valore mediano della distanza di reazione tra i maschi di camoscio e gli scialpinisti, nel momento in cui hanno cominciato ad allontanarsi è stato di 138 metri, mentre nel caso delle femmine con i piccoli la reazione è scattata già a 200 metri (Fig. 15).

 

Generalmente i maschi di camoscio hanno reagito in maniera meno violenta rispetto alle femmine con i piccoli, percorrendo tragitti più brevi per sottrarsi all’arrivo degli scialpinisti. Inoltre essi hanno permesso agli scialpinisti di avvicinarsi maggiormente prima di mostrare una reazione, rispetto a quanto fanno normalmente i branchi di femmine e piccoli. I maschi si sono sempre allontanati camminando, mentre le femmine hanno invece dato vita sia a fughe sia a spostamenti. Normalmente la presenza dei piccoli dell’anno nei branchi di femmine rende queste ultime particolarmente sensibili e attente a qualsiasi forma di disturbo che si avvicina.

 

Il progetto pilota condotto in Schwarzwassertal, tra l’Hoher Ifen Plateau e l’Hählekop, in Vorarlberg, sul possibile impatto dello scialpinismo, è stato uno dei primi condotti sulle Alpi, con l’intento di quantificare il disturbo di una attività outdoor e di proporre possibili misure di mitigazione.

 

Questa esperienza mostra come le conseguenze del disturbo provocato dalla presenza umana in montagna, durante la pratica dello scialpinismo, possano essere sì ridotte, ma non del tutto eliminate, anche nel momento in cui il flusso di frequentatori venga opportunamente canalizzato. Certamente la canalizzazione dei praticanti di una qualsiasi attività outdoor svolta in ambienti naturali, è un obiettivo da perseguire, in quanto consente agli animali di abituarsi, almeno in una certa misura, alla presenza umana, la quale, non venendo più percepita come un pericolo, viene tollerata più facilmente, evitando reazioni violente. Tuttavia in un’area dove vivono animali selvatici e dove l’uomo intende praticare la propria attività ricreativo-sportiva, l’eliminazione totale del disturbo non sarà mai possibile.

 

Bisogna inoltre considerare come nel caso appena trattato l’interazione tra scialpinisti e camosci avveniva lungo l’itinerario di salita, quando gli sciatori si muovono piuttosto lentamente e quindi il loro avvicinamento può essere previsto dagli animali più agevolmente. Molta diversa è la possibilità che la presenza dell’uomo venga accettata dagli animali, quando gli scialpinisti sono in discesa: in questo caso la maggiore velocità, l’imprevedibilità dell’itinerario e il fatto che si distribuiscono su una superficie più ampia quando scendono, fa sì che le reazioni degli animali siano sempre molto violente.

 

La realizzazione di itinerari marcati lungo i quali incanalare il flusso degli scialpinisti e degli escursionisti con racchette da neve può quindi essere considerata una buona soluzione, laddove ciò non entri in netto contrasto con le esigenze degli animali e a patto che gli scialpinisti si attengano in modo scrupoloso alle indicazioni date. Nel caso in cui le aree scelte come meta delle escursioni siano di importanza vitale per la fauna, come per esempio nel caso di importanti zone di svernamento o di riproduzione di cervi, camosci, stambecchi e dei tetraonidi (gallo cedrone, fagiano di monte, francolino di monte e pernice bianca) la cosa più opportuna da fare è quella di istituire aree chiuse alle attività umane, le cosiddette “zone di tranquillità”.

 

A questo proposito, già da molti anni nei paesi di lingua tedesca dell’arco alpino, Svizzera, Austria e Germania, si stanno prendendo provvedimenti di tutela per ridurre il disturbo causato alla fauna dalle attività outdoor, come lo scialpinismo e il freeride,: tra quelli più utilizzati vi è la canalizzazione dei praticanti lungo itinerari segnalati e l’istituzione di zone di tranquillità per la fauna, dove le attività umane sono proibite (tipicamente nella stagione invernale e in quella primaverile-estiva, al fine di tutelare il periodo riproduttivo) o strettamente regolamentate.

 

Per ulteriori dettagli circa l’istituzione delle zone di tranquillità e di altre misure per ridurre l’impatto delle attività turistiche sulla fauna, si rimanda alla sezione Esempi virtuosi.

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Fig. 15 – Valori mediani, minimi e massimi dei tragitti percorsi da maschi di camoscio rispetto a quelli di femmine con piccoli e relative distanze di reazione osservate nel periodo gennaio-aprile 1995 sull’Hählekopf, in seguito all’interazione con scialpinisti. Le femmine con i piccoli hanno di solito delle reazioni più violente all’avvicinarsi di una forma di disturbo. La differenza dei due parametri tra i due gruppi è significativa (Mann-Whitney U-Test: Z= 2,78663; P<0,01 risp. Z= 2,21451; P<0,05) (foto Luca Rotelli).

© Albert Mächler